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News / 302 Maggio 2012
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Teatro (ai confini) del mondo

by Lucy Rees

 

Veduta esterna del Museum of Old and New Art, febbraio 2011. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia. Foto: Leigh Carmichael; da sinistra: Brent Harris, Borrowed Plumage #2 (stranger), 2007. Olio su lino. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia;
Veduta esterna del Museum of Old and New Art, febbraio 2011. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia. Foto: Leigh Carmichael; da sinistra: Brent Harris, Borrowed Plumage #2 (stranger), 2007. Olio su lino. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia.

Una collaborazione piuttosto improbabile, quella tra l’eccentrico collezionista australiano David Walsh e il curatore parigino Jean-Hubert Martin, che hanno unito le forze per creare “Il Teatro del Mondo”, in mostra dal 23 giugno 2012 fino all’8 aprile 2013 presso il Museum of Old e New Art (MONA) a Hobart, Tasmania.
Il museo privato di Walsh, costato 100 milioni di dollari, situato in un edificio sotterraneo a tre piani costruito all’interno di un blocco di arenaria del fiume Derwent, senza finestre né indicazioni, ha aperto i battenti nel gennaio 2011 e ospita la bellezza di oltre duemila opere, con un allestimento che cambia ogni due settimane circa.
Opere dell’antico Egitto e monete romane sono collocate accanto a opere dei Young British Artists; sesso e morte fanno da filo conduttore.
La mostra copre circa 4000 anni di storia. Una eterogeneità nello spirito del ricco curatore, che dà uguale peso all’antico e al contemporaneo, e afferma: “Il mio museo prende in esame tutte le epoche, per questo indago cose diverse fra loro e metto in evidenza le loro somiglianze”. Ed è così che Walsh, milionario giocatore d’azzardo online, e Martin, ex Direttore del Centre Georges Pompidou e della Kunsthalle di Berna, attraverso modalità diverse, lavorano insieme per cambiare il concetto stesso di museo, cercando di sovvertire le modalità espositive convenzionali.
“I musei sono stati monopolizzati dagli storici dell’arte, il cui fine è insegnare la storia dell’arte seguendo una cronologia e le numerose categorie tecniche e geografiche. Oggi c’è il bisogno di liberare le opere d’arte dalla cornice della razionalità degli storici dell’arte e proporre un approccio all’arte più rilassato, dando la possibilità di fare confronti che vanno oltre i limiti di tempo e spazio e dando più importanza alla sensibilità”, ha dichiarato Martin.

Julie Rrap, Horse’s Tale, 1999. Fotografia C-Type. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia.
Julie Rrap, Horse’s Tale, 1999. Fotografia C-Type. Courtesy MONA Museum of Old and New Art, Hobart, Tasmania, Australia.

In mostra, all’interno delle 17 sale espositive del MONA, 180 opere provenienti dalla collezione di Walsh e 300 oggetti dal Tasmanian Art Gallery and Museum (“è nata da qui, quando ero bambino — afferma Walsh — la mia passione per l’arte”). In linea con la politica generale del museo, non sono presenti testi sulle pareti, ma i visitatori hanno libero accesso a una audioguida su iPod con un sistema GPS che segnala la posizione esatta delle opere all’interno del museo. Walsh e Martin sperano di ridare vita al pensiero visivo e mettere in discussione il modo in cui analizziamo le immagini. È interessante notare che il ricco collezionista non aveva mai sentito parlare di Jean-Hubert prima della mostra “Artempo” al Museo Fortuny di Venezia, tenutasi nel 2007. “Andai alla Biennale di Venezia come fanno tutti gli appassionati di arte e vidi la mostra curata da Jean-Hubert Martin e Mattijs Visser. Martin vede il mondo non come una massa caotica ma come una serie di segni. Quello che noi percepiamo come bellezza è principalmente il fenomeno dell’ordine estrapolato da una complessità, dal caos o dall’imprevedibilità”.
Vent’anni dopo la celebre e controversa mostra di Martin del 1989, dal titolo “Magiciens de la Terre”, al Pompidou, che ospitava cinquanta artisti provenienti dal cosiddetto mondo dell’arte occidentale e cinquanta da aree “marginali”, sarebbe interessante constatare se la visione del mondo del curatore francese è cambiata e come verrà recepita in un ex avamposto coloniale all’estremo sud dell’Australia.

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