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Maximo Moralia / 304 Luglio – Agosto – Settembre 2012
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Documentari ieri e oggi

by Massimo Minini

 

Telegramma che annuncia la partecipazione di James Lee Byars a Documenta 5.
Telegramma che annuncia la partecipazione di James Lee Byars a Documenta 5.

Ne ho viste nove. Ogni volta mi chiedo se sarà l’ultima. Possibile.
La prima della mia serie è stata la quinta, quella di Harald Szeemann, senza dimenticare Jean- Christophe Ammann curatore della sezione sull’Iperrealismo, interessante e importante perché smentiva, con l’evidenza dei dipinti, tutti gli assunti radicali dei concettual-poveristi che dominavano la scena. In effetti la Documenta di Szeemann è tutt’ora saldamente l’edizione più nominata, quella che ha fondato un nuovo modo e un nuovo mondo. Nata nel 1955 con Arnold Bode, le prime quattro edizioni affermano subito la potenza della Germania, riparano la ferita del Nazismo, rimettono i puntini sulle “i”, i tedeschi riprendono conoscenza, ogni quattro anni (il doppio della Biennale) di ciò che succede nel mondo. La Biennale di Venezia non ha ancora rivali. Infatti la Pop sbarca in Europa nel 1964 a Venezia. A Kassel arriverà solo nel 1968, quando Venezia è già “avanti” sulle barricate della contestazione. Ma giusto in quegli anni nasce il Concettuale che con una ventina di mostre molto importanti nel mondo getterà le basi del cambiamento. Lucy Lippard, Germano Celant, Seth Siegelaub, Szeemann a Berna, Wim Beeren ad Amsterdam, Sonsbeek, “When Attitudes Become Form”, Amalfi cambiano tutto. Nascono Flash Art, Artforum e Avalanche.
Insomma i Mille fiori fioriscono e la Documenta 5 di Harald ne è la summa. Lo stato tedesco cavalca la novità, finanzia una “operazione” straordinaria che celebra tutto il movimento.
Naturalmente possiamo dire che quella è stata l’apoteosi e il funerale (di prima classe) del Poverismo, Minimalismo, Concettualismo. Alla Documenta 5 ci sono andato con il camioncino, il Ducato Ford di Gino Di Maggio, allora fresco finanziatore di Flash Art, mentre io ne curavo la promozione. Mille chilometri carichi del numero speciale su Kassel, più le magliette e le valigette e i gadget. Questa volta — sono passati quarant’anni esatti — ci sono andato con quattro ragazzi che lavorano con me in galleria, carichi di valigie perché da Kassel siamo scesi a Basilea. Questa edizione è bella e interessante, montata molto bene, con molte scoperte di artisti sconosciuti del presente e del passato, mai sentiti prima — e forse non ne sentiremo più parlare dopo. Il mondo è esploso nel frattempo. Nazioni lontane sono entrate nel gioco. Il parterre è ormai enorme, sappiamo che ci sono artisti importanti in Africa, Cina, India… Dopo i “Magiciens de la Terre” mostra di Jean-Hubert Martin al Pompidou, i confini sono saltati. L’Afghanistan di Boetti è entrato prepotentemente nel panorama dell’arte. Non ci si può più andare in macchina, ma la Documenta 13 ne ha fatto il centro delle proprie operazioni. La Documenta 5 metteva sul palco giovani celebri “maestri”: Carl Andre, Sol LeWitt, Alighiero Boetti, Joseph Beuys, Giulio Paolini, Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Victor Burgin, Walter De Maria, Michael Heizer, Robert Barry, On Kawara… tutti. Questa tredicesima ha Francis Alÿs, Tino Sehgal, Ida Applebroog, Susan Hiller, Jennifer Cardiff, ma anche Emily Carr con opere degli anni Trenta, il pittore… con bellissimi grandi disegni, pitture dall’Australia di… insomma un mix sapiente dell’oggi, dove tutti i linguaggi sono compresenti ed equivalenti e accettati, non come ai tempi della Documenta 5 dove ideologicamente dominava il Concettuale (mica vero… c’erano anche gli iperrealisti!). Ma non sono più una folla compatta, non sono una squadra. Sono tante individualità a volte geniali. La coralità, quell’ultimo sprazzo di Koinè, s’è perso. Questa Documenta non ha alle spalle un tessuto di cento grandi mostre che la fondano. Si è fondata da sola con cento discussioni e cento libretti di testo (anche riassunti in un enorme volume). La festa è sempre grande a Kassel, il tempo va e viene, caldo e freddo si alternano. Nuovi spazi sono nati nel frattempo. E anche qui, come al Salone del Mobile di Milano, c’è ormai un “fuori salone” che impazza. Moltissimi lavori sono in giro nella città tanto che anche qui affittano biciclette come a Münster, dove ogni dieci anni si celebra la scultura. Intanto a Kassel le querce crescono inesorabilmente. Settemila Eichen accompagnate da una pietra confitta nel terreno lì accanto, volute da Joseph Beuys, crescono pian piano. Il Pianeta verde ci ricorda, con Beuys, quanto sia importante la “difesa della natura”, di cui Beuys è stato un combattente. Nel triangolone del finto Partenone di Kassel ci par di vedere ancora James Lee Byars che chiama uno per uno i passanti là sotto. Oggi Documenta non ha eroi protagonisti.
La macchina li ha un po’ schiacciati. L’attesa sui nomi creata attorno a questa edizione ha scatenato gli interrogativi, sciolti finalmente con l’evidenza delle opere. Non vendiamo più magliette o valigette, cerchiamo di salutare qualche artista che scotta, ma è difficile. Oggi quelli che “funzionano” sono inavvicinabili. I loro galleristi non li mollano? Oggi la lotta per emergere è più dura, grande competizione, grandi numeri. Linguaggi che mutano, tecnologie sempre nuove con cui misurarsi. Ma bisogna dominarle, piegarle, usarle ma non esserne vittime affascinate. Dicono tutti “I’m stressed”, chissà cosa avranno. Stressati perché hanno troppo successo? O perché non ne hanno abbastanza?

Massimo Minini è gallerista e viaggiatore nell’arte.

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Numero 338

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