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Spotlight / 306 Novembre 2012
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Art Hate

by Valerio Dehò
Art Hate, veduta dell’installazione presso la Galleria Paolo Curti/Anna Maria Gambuzzi and Co., Milano, 2012.
Art Hate, veduta dell’installazione presso la Galleria Paolo Curti/Anna Maria Gambuzzi and Co., Milano, 2012.

Può essere messa la Tate Modern sullo stesso piano di Gardaland? Sì, se l’arte contemporanea è puro intrattenimento per un pubblico elitario quanto sostanzialmente ignorante. È un rituale del benessere che non cambia la gente, ma favorisce solo i rapporti sociali dell’upper class. Per fortuna c’è un gruppo fondato nel 2010 dal Dr. Albirt Umber e da Mr. Harold Rosenbloom (pseudonimi per Billy Childish, Steve Lowe e Adam Wood), che vuole sovvertire questo ignobile trend. È un partito politico, si chiama “Art Hate” e la prima esposizione italiana fa capire con quali strumenti questi personaggi, che definire artisti forse è contraddittorio, stanno usando per aprire gli occhi alla gente. Soprattutto poster come quelli che si vedevano negli anni Trenta sotto le dittature rosse e nere, caratteri capitali, immagini chiare in bianco, nero e rosso, con riprese di icone della resistenza al nazismo nel ghetto di Varsavia nel 1943 o parodie come l’insegna “Kunst Macht Frei” che si rifà a quelle poste all’ingresso di campi di sterminio come Auschwitz o Terezin. Odiare l’arte non vuol dire però sotterrarla, ma recuperarne la parte intatta storica, politica e vitale. Con l’arte si comprende meglio il mondo e i suoi simboli: quello del Nazismo era all’origine un simbolo solare dell’universo in movimento. Le mostre del gruppo/partito inglese infatti sono atelier, laboratori in cui sono esposti non solo quadri e manifesti di stile retrò, ma ciclostili, macchine, vecchi giocattoli, secretaire che celano documenti. L’arte non è puro spettacolo, è un processo che va vissuto. “La rivoluzione siamo noi” di Beuys è uno slogan che gli “Art Hate” condividono, non a caso lo sciamano tedesco compare in alcuni loro poster. Ma naturalmente quello che è detestabile è il fatto di far diventare l’arte contemporanea un passatempo borghese, una macchina per vernissage, una community di presenzialisti. Le opere del gruppo spiazzano per il gusto vintage da mercante in fiera per la bella grafica: anche la rivoluzione è fatta di segni e di colori. L’oggetto è la controcultura dal dada al punk, il marginale che non rinuncia però a entrare nel sistema, la galleria d’arte, per farsi conoscere e arrivare a tutti. O quasi.

Galleria Paolo Curti/Anna Maria Gambuzzi and Co., Milano. 

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